Alle riprese per “La voce di Impastato”

In un periodo come quello attuale, nel quale gli investimenti in cultura e arte sono solamente un miraggio, è bello portare l’esempio di un’Italia giovane che, con pochi mezzi ma tante idee, riesce ancora a realizzare dei progetti pregevoli. In uno di questi è coinvolto un giovane cordovadese. Parliamo di Simone Mastroianni (25 anni, un’innata verve umoristica e la grande passione per il cinema) e del progetto artistico che contribuisce a produrre: la docufiction “La voce di Impastato“, del giornalista sanvitese Ivan Vadori, che parteciperà al festival “Le voci dell’inchiesta”, organizzato da Cinemazero per aprile. Simone è da tempo impegnato nella Pro Cordovado, di cui è anche vicepresidente, ed è vicino a conseguire la Laurea in Scienze e Tecnologie Multimediali. Nutre numerose piccole esperienze nel settore, non ultima la collaborazione col regista Alberto Fasulo, cominciata con uno stage di 6 mesi e culminata con l’assistenza nelle prime fasi del film “Tir”.

Come hai conosciuto Ivan Vadori, il regista de “La voce di Impastato”, e cosa vi ha portato a collaborare?

“Io e Ivan ci siamo conosciuti all’Università, frequentando lo stesso corso di laurea. Lui si è laureato portando come tesi un cortometraggio dedicato proprio all’argomento cardine di questo nuovo lavoro, che rappresenta un completamento di quella prima opera embrionale. Avendo la necessità di assumere un collaboratore che curasse la parte tecnica del film, ha intrapreso una serie di colloqui. Grazie al mio modo propositivo di comunicare e alle mie competenze, sono stato scelto come assistente alla regia”.

Puoi descriverci di cosa tratta il lavoro e quale è stato il tuo ruolo nella sua realizzazione?

“La voce di Impastato” racconta la storia di Giuseppe “Peppino” Impastato, un ragazzo siciliano proveniente da una famiglia legata alla mafia, che ebbe il coraggio di schierarsi apertamente contro il sistema malavitoso operante nel suo paese di nascita, Cinisi, in provincia di Palermo. La sua lotta alla mafia prendeva slancio dai microfoni dell’emittente radiofonica Radio Aut, fondata da lui stesso e attraverso la quale denunciava le malefatte del clan del boss Badalamenti. Naturalmente fu oggetto di minacce e ritorsioni, fino all’assassinio, avvenuto il 9 maggio 1978. Sulla responsabilità della sua morte si è riaperta l’inchiesta il 12 febbraio 2012, e sono stati condannati tre esponenti della mafia palermitana, tra cui lo stesso Badalamenti, ormai morto per la vecchiaia.

Il lungometraggio si inserisce nel genere della docufiction, e consta di due componenti. Da un lato c’è il documentario, che si dipana tra interviste stile “Report” a personalità vicine al protagonista e riprese dei luoghi legati alla vicenda. Dall’altro c’è la parte recitata, nella quale attori professionisti interpretano personaggi di fantasia che partecipano a un’indagine riguardante gli avvenimenti realmente accaduti. Personalmente mi sono occupato di tutte le riprese alle interviste e della regia creativa in fase di fiction, con la direzione degli attori e la scelta delle inquadrature”.

Sappiamo che tra gli intervistati ci sono personalità di spicco.

“Abbiamo avuto l’onore di poter intervistare magistrati e persone di primo piano nell’ambito sociale e culturale. Siamo stati a Milano per parlare con Antonella Mascali del Fatto Quotidiano e con Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto; a Roma al distretto antimafia per parlare col pm Franca Imbergamo; a Torino per intervistare Don Luigi Ciotti e il Procuratore Capo Gian Carlo Caselli; a Bologna per incontrare lo scrittore Carlo Lucarelli. Non è mancata la visita a Cinisi e ai luoghi della vita di Impastato, con l’intervista ai suoi amici e parenti più stretti. E’ stato emozionante il faccia a faccia con queste persone. Sono rimasto colpito dalla dialettica di Lucarelli e Don Ciotti, ma anche dai gesti quotidiani di persone che ricoprono i vertici delle istituzioni, come vedere il magistrato Caselli spruzzarsi l’acqua di colonia davanti a noi prima dell’intervista, nel suo ufficio, subito dopo essere stati perquisiti dagli agenti all’ingresso”.

C’è stato un momento in cui hai sentito un qualche timore a trattare di argomenti così delicati?

“Sinceramente questa sensazione l’ho percepita, in maniera anche netta, nel fare le riprese a Cinisi e dintorni. A tratti sono rimasto intimorito dall’atmosfera di curiosità mista a diffidenza che si era generata alla vista delle nostre telecamere. Trepidazioni di altro tipo si sono poi manifestate spesso durante gli spostamenti nelle grandi città, talvolta da solo, sui mezzi pubblici, con costose attrezzature che potevano attrarre qualche malintenzionato. Diciamo pure che sono un campagnolo cagasotto (ride)”.

Davide Del Re