Quel paradiso dei pescatori

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Nel 1949/50 Giovanni Cester avviò in località Venchieredo, a Casette, l’attività di estrazione di materiale ghiaioso per la sua impresa di costruzioni stradali. La prima cava fu scavata poco staccata dal vecchio Paker e ne risultò un laghetto a forma quadrata di un centinaio di metri per lato, profondo una decina. In un secondo tempo sbancò i terreni laterali verso Casette fino a formare un lago avente una superficie di parecchi ettari.

Qualcuno seminò dei pesci gatto e delle alborelle, comunemente dette “sgardole”, che si moltiplicavano rapidamente. Il luogo divenne un paradiso per i pescatori, liberi di accedervi anche privi di licenza, in quanto acque private non comunicanti con le pubbliche (i ruscelli, in questa zona assai numerosi).

La pescosità del lago era gratuita e diventò risorsa sufficiente per tante famiglie povere di Cordovado. I pesci gatto erano buoni fritti, anche migliori in umido con una foglia di alloro, e avevano il medesimo sapore del “bisat”, l’anguilla dei nostri fiumi. Le sgardole, di dimensioni piuttosto ridotte, venivano mangiate preferibilmente in una frittata. Ne approfittavano anche i pescatori dei paesi vicini, e, in occasione della festa del Primo maggio, organizzavano una partecipatissima gara di pesca, in cui vincevano quasi sempre quelli di San Vito. La tradizione terminò con l’avvento della burocrazia, il pagamento della quota di iscrizione, le licenze e le cavillose regole conseguenti.

LE ATTREZZATURE E LE TECNICHE

I primi pescatori di Cordovado appartenevano, come dicevo, a famiglie indigenti, e le loro attrezzature erano improvvisate e rudimentali. Adoperavano canne di bambù, le “canne d’India”; in mancanza, le “canne cargane”, cioè quel tipo di canne molto comuni che si trovavano lungo i fossati: grosse, vuote, fragili e poco elastiche.

Le lenze – le “filagne” – erano realizzate con spago sottile ma non troppo, si usava lo “spago fortin”; gli ami si acquistavano da “Gigi Cavicia” (Luigi Leandrin), non si trovavano i piombini e si adoperava un bulloncino quale peso per calare sott’acqua l’esca. Il galleggiante era un pezzo di un tappo di sughero di una bottiglia, forato al centro per far passare la lenza. Per catturare i pesci gatto occorreva un amo grosso calato quasi sul fondo del lago e l’esca era un verme raccolto nelle concimaie.

Il pescatore poteva utilizzare contemporaneamente due o tre canne, appoggiate sopra un ramo a forcella piantato sulla riva; attendeva, e quando un galleggiante segnalava che il pesca stava “ticcando”, cioè stava mordicchiando il verme prima di ingoiarlo con l’amo, afferrava la canna e, nel momento in cui affondava, con uno strappo agganciava e portava a terra il pesce gatto.

Da principio i pesci erano talmente avidi che si catturavano facilmente e in quantità. Occorreva porre attenzione a non pungersi sulle tre spine acuminate sporgenti ai lati della bocca e sulla testa.

In un secondo tempo comparvero le canne con i mulinelli, le lenze costituite da sottili fili di plastica (nylon) di varia portata – le cosiddette “grane” – sofisticati colorati galleggianti, ami francesi grossi per i pesci gatto e quasi invisibili per le sgardole. Intanto i pesci si erano fatti furbi; i miglioramenti apportati dalla tecnica dovevavno necessariamente essere supportati dalla bravura del pescatore.

IN PRIMA PERSONA

Pian piano mi ero dotato di una decina di canne d’India, diritte, resistenti, flessibilissime in punta, lunghe fino a 5 metri, tutte attrezzate per pescare sgardole. Le canne mi erano state regalate dalla nobildonna Rusconi, dalla signorina Alma Sbaiz e dal possidente Nello Toppani di Venchieredo. Qualcuna mi era stata ceduta dall’amico Caio Moretto, che abitava nel complesso di Paolin Covassin prima di emigrare in Francia nel 1955. Il Caio si “forniva” direttamente nel canneto del confinante palazzo Nonis e le barattava per qualche sigaretta.

Fra quelli della mia età, o poco più anziani, il Caio era il miglior pescatore di Cordovado; molto abili erano anche Giorgio Fanottoli, alcuni Gaiardo di Saccudello tra i quali spiccava Dino, che catturò nel Paker grande di Bernard un “rainot” del peso di oltre 10 kg. Io mi difendevo. Poi rimpatriò dal Belgio Nello Bot, “Sardina”, delle Casette, che mise d’accordo tutti diventando l’indiscusso numero 1.

Mario Monopoli