La Marion

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Chi si ricorda (vale per gli anziani) di Marion? La zingara dal carretto coperto ad arco (la sua casa), chiamato carovana, e del suo fedele cavallo. Sostava a Cordovado, sempre nello stesso posto: all’inizio di via Belvedere, a una ventina di metri dalla canonica, dove iniziava una fila di giganteschi pioppi che si protraevano fino al “fosal di Miour”.

Periodicamente arrivava, chissà da dove, con la bella o con la brutta stagione. Accendeva il fuoco con la legna del posto e si preparava il suo pasto. Viveva del buon cuore dei paesani, che pensavano alla sua nutrizione e a quella del suo cavallo. Veniva a lei offerto: farina per la polenta e fieno per l’animale. Lei generalmente non andava a questua, aspettava.

Era un avvenimento, per noi bambini, l’arrivo di questa nomade e si faceva a gara a spargere la notizia. Il suo aspetto era di slava, montenegrina: il volto scuro, con profonde rughe. La voce roca, più da uomo che da donna. Alta e robusta, con lunghe gonne e perenne fazzoletto sul capo. Parlava qualche parola in veneto (l’italiano in quel tempo lo parlavano solo i signori). Con noi bambini era buona, ci accoglieva nel suo “accampamento”, non ci faceva paura. Dopo tanti anni era diventata una paesana. Non si è mai capito se era stata sposata, se avesse dei figli.

Più volte, anche d’inverno, e con la nebbia, chi passava per la via, vedevano questa figura arcaica, fuori dalla “carovana” attorno al fuoco a scaldarsi, in un’atmosfera irreale. Dopo un po’ di tempo, una o due settimane, com’era venuta, così “spariva”, ma tutti sapevamo che dopo qualche mese sarebbe ritornata.

Difficile dialogare con lei, poche le sue parole. Sempre chiusa e severa, ma sono convinto che il suo animo fosse stato leggero… molto leggero.

Saverio Martin