Quel pallone così amato

Come per tutti i ragazzi di Cordovado nati tra gli anni ’80 e i ’90, anche per me il primo ricordo della Palestra di via Bassa risale all’infanzia, ai tempi delle scuole elementari.

In quel luogo sono state vissute le prime esperienze motorie, si sono provati i primi giochi e le prime competizioni, ci si è rincorsi interminabilmente o fermati in panchina a rifiatare. Appena iniziata la scuola elementare ho scelto anche la mia prima attività sportiva, seguendo i miei amici e passando i pomeriggi in quello spazio a far rimbalzare una palla a spicchi arancione con cui avrei iniziato una storia lunga ormai quasi 30 anni. Proprio lì, accanto alle aule, molti di noi hanno sperimentato l’amore o l’odio per il gioco, per la fatica e per il sudore. Abbiamo assaporato lo sport e ciò che insegna: l’impegno, la costanza, l’unità d’intenti, il supporto reciproco, il rispetto dell’avversario. È tra quelle mura che ho provato i primi momenti di esaltazione per i punti segnati o di imbarazzo per quell’esercizio che, davanti ai compagni irridenti, proprio non ero capace di eseguire.
Ed è sopra quel linoleum verde, oggi sostituito dal giallo parquet, che ho iniziato a capire che lo sport è metafora della vita e che finchè affronti ogni sfida con tutta la forza e determinazione, dando fondo ad ogni tua energia, la vittoria o la sconfitta non sono il vero indice del tuo status di sportivo o di uomo.

Per questo sono orgoglioso che da oggi la palestra sia intitolata alla mia amica Rossana. Anche lei, come me, lì ha iniziato la sua storia d’amore con un pallone, quello da volley. Da bambina ha frequentato la palestra per le prime lezioni di mini-volley, ed è diventata negli anni una pallavolista vera. E non parliamo di una giocatrice appassionata ma dilettante, Rossana era un’atleta talentuosa e decisamente superiore alla media. Ho sempre pensato fosse l’esempio di come, grazie al lavoro, al cervello ed alla fiducia nei propri mezzi si possano ottenere risultati che nessuno si sarebbe aspettato. Rossana non aveva un fisico esplosivo e atletico: era magra, longilinea e di statura insufficiente per la pallavolo di alto livello, ma riusciva a compensare con movimenti fluidi ed agili, con l’estrema pulizia dei gesti tecnici e con un sovrannaturale senso del gioco. Quando la vedevo in campo, Rossana anticipava il movimento del pallone, si trovava già nella sua traiettoria in battiti di ciglia e non sembrava mai in affanno per un intervento. Il suo curriculum parla per lei, con numerosi titoli vinti a livello provinciale e regionale, nonché finali nazionali disputate con la maglia del Chions a livello giovanile. Una carriera che ha il suo apice a Padova negli anni universitari immediatamente precedenti alla malattia, con gli esordi in serie B2 con l’Amat Micromeccanica e con la serie C al Volley Eagles.

Ma la qualità che, da sportivo, le ho sempre invidiato, era mentale. Rossana era una ragazza straordinariamente orgogliosa e confidente. Mentre io sono sempre stato ansioso, insicuro prima dei confronti importanti e degli avversari difficili, lei traeva stimolo ed energia dalle sfide che temeva. Poteva rimanere silenziosa e scorbutica per ore dopo una sconfitta, ma non veniva mai lesa la sua sicurezza di sé.
Nemmeno di fronte alla malattia l’ho mai vista arresa, affrontando il periodo più buio con la stessa determinazione con cui si presentava in campo: con le farfalle nello stomaco ma la testa alta e gli occhi decisi di chi, anche di fronte ad un avversario nettamente più forte, non vede l’ora di giocare la propria partita.

E così la prossima volta che entrerò nella palestra dove tutti abbiamo iniziato, guardando quel pallone che ha accompagnato Rossana fino al suo ultimo giorno e l’immagine di lei che lo schiaccia, non riuscirò a pensare a migliore ispirazione per chiunque, dentro un campo da gioco o nella propria vita, debba affrontare la prossima sfida, che porti una vittoria o una sconfitta.

Davide Del Re