Il “rompiscatole archeologico”, considerazioni sul recente rinvenimento a Belvedere

Nella zona compresa tra la bassa pordenonese e il Veneto orientale non siamo in molti che si occupano di archeologia dal punto di vista professionale; anzi, per molte persone “l’archeologia” non può neanche essere intesa come una professione e viene spesso superficialmente relegata al mondo dell’hobby… c’è chi va a pesca, a raccogliere i funghi, a ballare il liscio e chi passa il suo tempo con “il pennellino” a dissotterrare oggetti del passato: “Di che ti occupi nella vita? Di archeologia? Si… ma di lavoro?”.

L’archeologia, invece, è una disciplina scientifica tutt’altro che semplice e “dilettantistica”, che prevede un elevato livello di preparazione, sia teorica che professionale: una laurea, almeno una specializzazione o un dottorato di ricerca in uno dei diversi ambiti della disciplina, corsi e masters post-laurea, un costante aggiornamento sulle nuove metodologie di scavo e, non ultimo, l’analisi delle continue scoperte che la Soprintendenza e i colleghi fanno nel territorio. Proprio per quest’ultimo aspetto anche chi scrive è rimasto positivamente sorpreso (ma non “impressionato”) dal recente ritrovamento avvenuto in località Belvedere di Cordovado, in concomitanza con lo scavo per la posa della nuova condotta del metanodotto di Snam Rete Gas. In realtà, visto che tra gli “addetti ai lavori” le notizie corrono veloci, avevo già da tempo avuto notizia della scoperta archeologica (in quel periodo stavo sorvegliando i lavori per la posa della fognatura a poco più di un chilometro di distanza dall’area di scavo), che è stata resa di pubblico dominio dalla stampa e dai media solo di recente, quando era ormai impossibile da parte delle autorità competenti qualsiasi forma di riservatezza, funzionale agli archeologi per lavorare in modo ottimale. Una volta diffusa, la notizia ha alimentato tra i cittadini cordovadesi una forte curiosità, che si è tramutata subito in una serie di domande e legittime osservazioni che alcuni cari amici, in assenza di competenze specifiche, mi hanno girato per approcciarsi al problema con correttezza… ed ecco il senso di queste mie poche righe!

Alla prima domanda, la più ovvia, “Ma che cosa hanno trovato?” risponderò alla fine del presente contributo; la seconda domanda che mi sono sentito più spesso rivolgere è la seguente: “Come mai gli archeologi erano presenti durante gli scavi? Sapevano già che in quel luogo erano sepolti dei resti romani?”. Per rispondere a questo quesito bisogna considerare il contesto lavorativo che ha permesso la messa in luce dell’area archeologica, ovvero i lavori per la posa della nuova condotta del metanodotto: senza entrare nei dettagli legislativi che regolano gli appalti delle grandi opere pubbliche, il committente che deve eseguire i lavori deve preventivamente eseguire tutta una serie di indagini preliminari, che riguardano i diversi ambiti (naturalistici, paesaggistici, ambientali, geologici ecc.) per i quali lo Stato preveda una forma di tutela; tra queste indagini figura anche quella archeologica (“VIARC” ovvero “Verifica d’Interesse Archeologico”), che deve essere affidata ad archeologi professionisti e iscritti in un apposito elenco del Ministero.

Prima dell’inizio dei lavori di scavo essi analizzano l’intera area, non solo quella interessata dai lavori ma anche il territorio circostante, al fine di comprendere sia il paesaggio antico sia i rinvenimenti archeologici avvenuti nel passato. In base ai risultati di questa verifica preventiva, la competente Soprintendenza formula delle “prescrizioni” all’esecuzione dei lavori, che la committenza è tenuta a rispettare. Nel nostro caso la Soprintendenza, vista l’importanza dell’area in epoca antica e la possibile presenza di insediamenti lungo il corso (oggi interrato) di un antico ramo del Tagliamento attivo in epoca romana, probabilmente ha chiesto alla Snam Rete Gas la presenza di un archeologo durante le operazioni scavo e movimentazione del sottosuolo; la scoperta dell’area archeologica si deve, quindi, al lavoro di sorveglianza continuativa dei lavori di scavo da parte di un archeologo che, anche in assenza di indizi superficiali, sapeva di operare in un’area archeologicamente molto interessante.

“Ma perché l’area non è stata scavata integralmente e ci si è limitati al sedime dei lavori del metanodotto?”

Dal punto di vista economico, l’indagine preliminare e la presenza costante di un archeologo “sul campo” sono operazioni completamente a carico del committente, cioè Snam Rete Gas, che (come nel caso del sito in località Belvedere) in caso di rinvenimenti archeologici è tenuta a sostenere l’onere economico del successivo scavo, documentazione e trattamento post-scavo dei reperti mobili rinvenuti (i reperti) ma, per ovvi motivi, limitatamente al sedime oggetto dei lavori.

Lo scavo dell’intera area archeologica (che da una mia personale opinione desunta dal confronto con contesti abitativi simili rinvenuti nel Veneto orientale potrebbe raggiungere, se non superare, i 10.000 metri quadrati di superficie), dovrebbe essere a carico dello Stato, che se dovesse scavare tutto ciò che emerge dal sottosuolo italiano avrebbe bisogno di quattro “Leggi Finanziarie” solo dedicate all’archeologia.

Lo scavo è un’operazione lunga, delicata e costosa poiché è “irreversibile”: una volta scavato, non è più possibile tornare indietro e non ci sono possibilità di “ripetere” l’operazione in quanto non esistono al mondo due contesti archeologici uguali. Per questi motivi i “non addetti ai lavori” si stupiscono di vedere più spesso un archeologo non con in mano il fantomatico “pennellino” bensì intento a scrivere schede, misurare, fare fotografie, eseguire riprese con un drone o campionare grumi di terra. Tutto questo lavoro scientifico ha un costo notevole che, al momento, lo Stato spende con parsimonia e oculatezza e solo per casi veramente eccezionali. La risposta alla conseguente domanda: “Ma perché, allora, non può il Comune farsi carico della spesa di scavo?” è implicita nella precedente: può un Comune piccolo come Cordovado disporre o trovare finanziamenti dell’ordine di un centinaio di migliaia di Euro per sostenere lo scavo dell’intero sito? Certo, per ricostruire e valorizzare la storia di una comunità locale qualsiasi cifra sarebbe ben spesa, ancor meglio se essa è grande, ma talvolta bisogna guardare la realtà dei fatti realisticamente e con occhio obiettivo e lasciare a tempi migliori un bene di cui si conosce l’esistenza e che va tutelato.

Tutelare quanto emerso in località Belvedere è proprio quanto è stato fatto dalla Soprintendenza dopo l’indagine conoscitiva appena terminata: dopo essere stati scavati, documentati e rilevati, i resti sono stati appositamente protetti e saranno rinterrati al fine di preservarli da possibili danneggiamenti. Ciò è quanto si fa sempre al termine di una indagine archeologica, anche se è l’operazione che viene più spesso fraintesa e “contestata”: “Perché, invece di ricoprire il tutto, quanto trovato non viene lasciato “a vista” e a disposizione del pubblico per una fruizione turistica e culturale?”. So che la mia risposta potrà suscitare qualche dissenso o malumore ma risponderò affrontando il problema da due punti di vista distinti. Il primo è contestuale: il rinvenimento archeologico di via Belvedere riveste una eccezionalità (termine questo da utilizzare con cautela in ambito archeologico ma “comprensibile” dal punto di vista mediatico) tale da prevederne la valorizzazione? No! Pur nella loro sicura unicità formale (nessun contesto abitativo, funerario o produttivo d’epoca romana è uguale ad un altro) nel raggio di trenta chilometri dall’area di rinvenimento sono stati individuati almeno altri dieci siti archeologici riconducibili alla medesima tipologia di quello di via Belvedere, che diventano una trentina se si considera il territorio compreso tra Cordovado e il mare. Forse sbaglierò ma è mia opinione che, dal punto di vista scientifico, l’importanza dell’area archeologica scoperta a Cordovado non è tanto legata a “che cosa” è venuto alla luce quanto al “dove” i resti siano stati scoperti: mai prima d’ora il territorio cordovadese aveva restituito resti d’epoca antica e questa lacuna ha trovato una giustificazione nel fatto che è stato finalmente documentato come la coltre alluvionale del ramo scomparso del Tagliamento abbia sepolto sotto quasi due metri di sabbie i livelli di frequentazione antichi; non è da poco ipotizzare, senza temere di sbagliare, che anche in altre zone del territorio comunale eventuali altre testimonianze del passato non ci siano… sono solamente più profonde rispetto a quelle superficiale di Morsano al Tagliamento o Gruaro. A ciò si aggiunga, ed è il secondo aspetto del problema, che i resti emersi per essere opportunamente valorizzati necessitano di una serie di interventi, che hanno tutti un costo notevole dal punto di vista economico; in sintesi: esproprio del terreno; messa in sicurezza idraulica dell’area (i resti sono profondi ma la falda è piuttosto superficiale, con la conseguenza che le infiltrazioni d’acqua sono costanti e di notevole flusso; per chi ha qualche perplessità su cosa significhi avere un “fiume d’acqua” a poco più di un metro di profondità consiglio di chiedere agli abitanti di via dei Comunali cosa ha comportato lo scavo della nuova condotta fognaria); lo scavo e la messa in sicurezza dell’area a fini della fruizione pubblica; il costosissimo restauro conservativo dei resti venuti alla luce (tengo a precisare che se lo scavo archeologico ha un costo non indifferente, il lavoro di restauro può raggiungere cifre “da capogiro”); la copertura dei resti scoperti, poiché è impensabile lasciarli “a cielo aperto”; la successiva gestione e manutenzione dell’area musealizzata… chi può farsi carico di tutte queste spese? Chi, oggi, può sostenerle?

E se “magicamente”, ma personalmente credo poco nella magia, un eventuale sponsor finanziasse tutto ciò, quale sarebbe il ritorno ricettivo che ne deriverebbe? Vi posso assicurare che, se dal punto di vista scientifico e archeologico i resti scoperti sono molto interessanti e importanti per la comprensione delle dinamiche insediative in epoca romana lungo la sponda orientale del Tagliamento scomparso, non metterei la mano sul fuoco nel garantire lo stesso approccio positivo di un possibile visitatore comune alla vista di semplici fondazioni murarie o lacerti di piani di pavimentazione non di pregio… e con questa amara considerazione giungo alla conclusione riprendendo la domanda con la quale ho iniziato questi miei pensieri: “Ma che cosa hanno trovato?” Sinceramente, con precisione non lo so! È buona e consolidata prassi che un archeologo, se non invitato, non si rechi mai a visitare uno scavo di un collega; uno scavo in corso è un luogo estremamente “delicato”, tendenzialmente non calpestabile, e un archeologo al lavoro è un professionista che sta elaborando (come un personal computer) un numero incredibile di informazioni e dati che hanno un senso e una soluzione solo a scavo terminato, quando ogni evento, ogni causa ed effetto, ogni dato cronologico e contestuale trovano una sicura e incontrovertibile collocazione nella storia di quel sito. Quindi, anch’io come voi lettori, attenderò con ansia che l’équipe di archeologi che hanno lavorato in via Belvedere e la dottoressa Di Tonto, ispettrice di zona della Soprintendenza, ci raccontino in una sicuramente interessante conferenza pubblica gli esiti della loro ricerca e sono certo che dopo quella serata saremo tutti più consapevoli di abitare in luoghi che riservano ancora molti “antichi” segreti.

Vincenzo Gobbo (un archeologo “quasi” cordovadese)